Dal 3 fino al 12 marzo, nella Scatola Magica del Piccolo Teatro Strehler, Piero Mazzarella racconta e interpreta Bertoldo in lingua e in dialetto, tratto dal capolavoro di Giulio Cesare Croce (1550-1609), a 400 anni dalla morte dello scrittore. La riduzione del testo originale è di Piero Mazzarella, coadiuvato da Giuseppina Carutti. Autentico figlio d’arte, Mazzarella è nato e cresciuto nei carrozzoni di un teatro di giro ma, nel 1957, rimasto vedovo con due figli, è stato costretto a rinunciare alla carriera di attore girovago per stare vicino ai bambini ancora piccoli. Entrato a far parte della Compagnia del Teatro Stabile milanese al Gerolamo, il non piccolo sacrificio lo ha reso il piu’ qualificato erede del mitico Ferravilla, lume tutelare del teatro in vernacolo milanese.
Ha recitato all'Alcione, all'Olimpia, al Sant'Erasmo, al San Calimero, al Teatro della 14°, dove ha interpretato molte commedie scritte dal fratello, meglio noto col nome d’arte di Rino Silveri.
Ha fatto radio, televisione, cinema, per decenni ha collaborato col Piccolo Teatro diretto da Giorgio Strehler, col Teatro Franco Parenti e altri illustri palcoscenici, ottenendo riconoscimenti per vari decenni, come il premio «San Genesio», nell'ottobre del 1963, per la sua interpretazione in «L'eredita’ del Felis» di Luigi Illica al Piccolo Teatro e in seguito con la «Maschera d'oro» dell'Istituto del Dramma italiano, come protagonista del «Rico de Porta Garibaldi» di Severino Pagani, al Gerolamo. Piero Mazzarella, nel 1962, è stato fra i protagonisti dello strehleriano Nost Milan, che a Parigi ha vinto il Festival mondiale della prosa. Nel 1974 gli è stata conferita la ‘Medaglia d’Oro’, una benemerenza civica del Comune di Milano.
Crede che ora, recitando in dialetto in luoghi come il Piccolo Teatro, questo linguaggio sia finalmente sdoganato?
Non è così. La gente ha solo voglia di sentire quello che gli piace sentire e l'attore deve trovare il modo di dirgli quello che vuole. Ecco perché bisogna usare i testi migliori. Bisognerebbe poter parlare con la gente, il pubblico che ha pagato dica cosa vuole, si discute in modo civile con quelli che producono. Tutti devono rispettarsi, il teatro non ha indirizzo: è un luogo dove si celebra una messa. Se le chiese sono vuote, la colpa di chi è? Degli officianti! L’importante è cercare la qualità: è meglio una donna bellissima che non scuce un baffo o una bruttina per la quale si perderebbe la testa?
Perché ha scelto questo testo?
Mi è stato proposto. Gli attori dicono sempre grandi bugie… come fa un attore a scegliere tutto lui? Se ti propongono una cosa che è nelle tue corde, la fai. Siamo così fragili, chi ha tempo? Le pare che con la mia voce avrei potuto fare Romeo? L’ho fatto, ma nel ruolo del frate. Non domandavo al mondo il perché, forse non avrei tanto desiderato essere Romeo? Col fisico e la voce che ho, ho comunque sempre fatto parte di un sogno. Vedo gente che fa cose che non sa fare e, se lo fa coi soldi dello Stato, mi dà più fastidio!
Sergio Escobar, direttore del Piccolo, l’ha chiamata ‘Voce della Bruma’ ma non solo: anche cultura alta, parola di poesia e di ragione, un investimento fatto sui giovani. E’ d’accordo?
Io e mio fratello viaggiavamo in carrozzone con mio padre e mia madre e io, più forte, portavo le scene, che erano di carta, non belle come queste del Piccolo Teatro oggi. Mia madre raccontava che a marzo, quando sono nato io (il maestro ha compiuto 82 anni il 2 marzo, n.d.r.), faceva così freddo che si erano rotti i mozzi delle ruote dei carri, in legno. Mio padre, Rosario, Sasà per i più intimi, era siciliano e mia madre, Maria, lombarda, era la mamma in scena e fuori scena, nel senso che faceva da mangiare per tutti gli attori, non solo per noi. A fine spettacolo, il tavolo del re Lear diventava il luogo su cui stendere tovaglie di carta bianca, le stoviglie e le pentole fumanti coi cibi appena cucinati con la stufetta a gas, sotto al palco.
Belli questi ricordi. E poi?
Alla sera il carro con gli scarrozzanti tornava a Vercelli, la nostra base e al mattino si andava di nuovo nelle piazze di tanti paeselli. C’era gente che conservava le foto coi nostri autografi sui mobili di casa, come fossimo stati parenti! La gente semplice amava il teatro, ci aspettava e veniva sempre a vederci, stagione dopo stagione.
Tornando al Bertoldo?...
Bertoldo è un uomo qualsiasi ma non un uomo qualunque. Un contadino incapace di genuflettersi al potere e astuto come pochi. Conscio che l’uomo, re o contadino che sia, è prima di tutto un essere umano. Il Bertoldo mi è stato proposto da Giuseppina Carutti, come ‘La vecchia Europa’ che è stato un trionfo. Lo stesso Ronconi era venuto in camerino a farmi un sacco di complimenti, una grande soddisfazione. Spero che anche questo spettacolo vada bene.
L’importante è la salute, condivide?
Ho un rene solo da 15 anni e vivo benissimo. Seguo una dieta e sto benissimo, lasciamo stare che mi ha operato Staudacher, 7 ore di intervento, e per il resto non ho problemi.
Mi spiega la differenza tra saltimbanchi e cantimbanchi?
Il saltimbanco è uno che viene dal circo ed esegue lo sciarivari: linguaggio circense che indica tutti i salti, di vario tipo, che si fanno per aprire uno spettacolo al pubblico. I cantimbanchi, invece, sono quelli che fanno il loro lavoro ai banchi, dove vendono di tutto e la parola è onomatopeica perché dà i suoni a una piazza che vive, coi richiami delle merci esposte da parte dei cantimbanchi che le esaltano con grida, per attirare clienti, offrendo perfino gli odori dei cibi e degli oggetti esposti.
E’ vero che ha studiato per realizzare la riduzione dialettale delle versioni, scritte nel ‘600 e nel ‘700 del Bertoldo, che scriveva e raccontava quanto accadeva nei paesi, nei mercati, nelle strade e fra la gente?
Sono felice di aver dato retta a Giuseppina e di aver lavorato sugli scritti antichi. I politici di oggi dovrebbero leggere il testamento di Bertoldo e invece pensano che il gerundio sia mio cognato.
Tornando ai giovani, che ne pensa sull’investimento per loro?
I giovani, io ho sempre creduto in loro. Io lavoro per un pubblico di diciassettenni, non per gli ottantenni. Sono loro che devono conoscere, imparare, agire in futuro. Il Bertoldo, che veniva dalla campagna, doveva fare una guerra contro il potere: va a vedere il re, lo guarda davanti e dietro, poi fa una smorfia e dice: “Che sono venuto a fare qui? Credevo che i grandi fossero come i campanili che sovrastano tutti gli altri, ma tu non sei niente, sei fatto di terra come me e io non mi scappello davanti a te! Chi l’ha inventata ‘sta macchina del niente?”.
Come intende la figura di Bertoldo, uomo brutto ma ingegnoso?
Dico che Bertoldo è come Totò in ‘Uccellacci e Uccellini’ di Pier Paolo Pasolini, artista e scrittore che aveva un sentire simile a quello di Giulio Cesare Croce, vissuto nel ‘600 ma capace di capire la gente semplice di tutti i tempi.
Escobar ha detto che, secondo lui, la cultura di oggi sta uccidendo la lingua e il pensiero. ‘Noi dobbiamo, con la forza del teatro, combattere la stupidità dei gossip e tornare a sentire i discorsi veri. La banalità sta uccidendo la cultura’. Spera di riuscirci, col Bertoldo?
Ho lavorato con passione sul testo e l’ho scritto in veneziano e in bolognese, oltre che in italiano, perché la gente parla in dialetto ma non per questo dice solo fesserie, né le pensa, anzi. Chiacchiera, il che non significa che spettegoli. Questo Paese è un allegro Bengodi. Credo che tutta la gente colta, come chi si sente di appartiene a un certo ceto sociale, debba leggere Platone, quando scrive: “Abbiate timore della collera dei deboli”!
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